Le tariffe internazionali sulle calzature non fermeranno la globalizzazione, ma ne cambieranno le rotte. Le filiere produttive globali sono strutturate in modo tale che circa due terzi delle calzature consumate sono prodotte in paesi diversi da quelli in cui vengono acquistate. L’idea della deglobalizzazione è quindi una narrativa errata. Piuttosto, si assiste a una riconfigurazione del commercio globale verso una globalizzazione regionale. Tale processo vede crescere l'importanza della logistica e della geopolitica rispetto ai tradizionali vantaggi competitivi basati esclusivamente sui costi.
Il dibattito sull'impatto delle tariffe nel settore calzaturiero è più che mai attuale. Per comprendere appieno le dinamiche in gioco, è fondamentale analizzare il contesto globale della produzione e del consumo. Per il Centro Studi di Expo Riva Schuh e Gardabags, Enrico Cietta, economista e Presidente del Comitato Scientifico della fiera, evidenzia come la globalizzazione, pur trasformandosi, sia un processo inarrestabile.
La resilienza della globalizzazione e l'impatto delle crisi
Contrariamente a quanto si possa pensare, l'introduzione di nuove tariffe non si tradurrà in una "valanga che travolge la globalizzazione". "Il nostro sistema globalizzato della produzione di calzature, oggi non può essere interrotto", afferma Cietta. La globalizzazione sta cambiando volto, ma non tornerà a un modello in cui ogni paese produce autonomamente le proprie scarpe.
Analizzando i dati recenti, emerge una chiara dissociazione tra il calo dei consumi e della produzione rispetto alla maggiore resilienza delle esportazioni.
Nel 2023, si è registrato un calo significativo dei consumi: circa un miliardo di paia in meno rispetto al 2017 e 1,3 miliardi di paia in meno rispetto al 2022.
La produzione ha visto un calo altrettanto significativo, lasciando sul campo 1,1 miliardi di paia rispetto al 2017 e 1,4 miliardi rispetto al 2022.
Tuttavia, il calo delle esportazioni è stato molto più contenuto: solo 0,3 miliardi rispetto al 2017 e 1,1 miliardi rispetto al 2022.
Questo dato è cruciale: le crisi impattano maggiormente sui consumi e sulla produzione che non sulle esportazioni. La ragione è strutturale: "due scarpe su tre di quelle che noi consumiamo sono prodotte fuori dal paese in cui poi vengono consumate". Le esportazioni dimostrano una resilienza molto maggiore rispetto alle crisi economiche, evidenziando la difficoltà di arrestare il processo di globalizzazione della produzione calzaturiera.
Dazi e riconfigurazione del commercio globale
I dazi avranno un impatto, ma "più che un impatto sulla consistenza dei flussi, produrranno un cambiamento sulle direttrici dei flussi". Pertanto, in questo momento storico non è corretto parlare di "deglobalizzazione", ma piuttosto di una "globalizzazione che muta e presenta differenti caratteristiche rispetto al passato". Stiamo assistendo a una riconfigurazione del commercio globale di calzature che va verso una "regionalizzazione della globalizzazione". Questo termine non si riferisce unicamente a un tema di prossimità geografica, ma anche a variabili legate a temi logistici piuttosto che geopolitici. Rispetto alla globalizzazione del passato, in cui vincevano soprattutto considerazioni legate ai vantaggi competitivi dei vari produttori, ora entrano in gioco altre variabili.
Il "Reshoring": un'ambizione irrealistica?
L'idea di riportare la produzione nei paesi importatori di calzature, il cosiddetto "reshoring", è un'ambizione "impensabile". La produzione calzaturiera è fortemente concentrata: i produttori esportatori gestiscono il 67,8% della produzione mondiale e il 79,8% dell'export, fungendo da "fabbriche del mondo" che producono "non per i loro consumi, ma per i consumi di altri". I paesi consumatori, che rappresentano circa il 16% dei consumi mondiali, difficilmente potranno portare all'interno dei propri confini una produzione così consolidata e ben strutturata altrove. Di conseguenza, l'effetto reshoring "si vedrà su una quota molto piccola della produzione e probabilmente riguarderà alcune nicchie".
Le Sfere di Influenza Geopolitica e il Futuro del Settore
Cietta ha definito cinque sfere di influenza:
- Sfera di influenza statunitense e occidentale: Detiene i consumi e l'importazione (Stati Uniti, Canada, Messico e Unione Europea, Inghilterra, Giappone, Corea del Sud e Australia).
- Sfera di influenza cinese: Controlla la produzione e l'esportazione (Cina, Hong Kong, buona parte dell'Asia, alcuni paesi dell'Africa dipendenti dagli investimenti cinesi).
- Paesi emergenti non allineati: Produttori che consumano buona parte della loro produzione, fungendo da ago della bilancia tra i due grandi poli citati in precedenza (India, Indonesia, Vietnam, Brasile e Sudafrica, ovvero l'area BRICS).
- Russia e Iran: Paesi particolarmente penalizzati dai blocchi del commercio internazionale.
- Paesi neutrali: Piccoli hub commerciali che mantengono relazioni con tutti (Singapore, Svizzera, Emirati Arabi).
I 2 blocchi di produzione e importazione continueranno a dialogare
Non è una notizia, il dato è risaputo, ma è bene ricordarlo a chi predica dissoluzioni improvvise delle filiere: USA e Occidente contano il 75,1% delle importazioni mondiali; l'area d'influenza cinese il 75,9% delle esportazioni e il 66,5% della produzione.
Questi dati e le considerazioni sulla mutata fisionomia della globalizzazione rendono chiaro un concetto di fondo: i due mondi, quello occidentale consumatore e quello asiatico produttore/esportatore, dovranno inevitabilmente continuare a confrontarsi e a commerciare. Si apriranno probabilmente alcune prospettive in nuovi paesi, ma lo scenario rimane "ben suddiviso". La reciproca dipendenza dei due blocchi muterà lentamente, è di certo probabile, ma non svanirà in tempi brevi.
Scenario di transizione
Certo, ci muoviamo in uno scenario di transizione. Veniamo da un ventennio dove "i prezzi sono rimasti tendenzialmente stabili", mentre oggi si opera in un mondo fatto di contesti dove vige un'inflazione negativa (dovuta a una massiccia sovraproduzione) e mercati dove il rincaro dei prezzi è rilevante (anche a causa di restrizioni e dazi). È plausibile immaginare che si passerà da uno scenario dominato da un "hub produttivo estremamente concentrato e focalizzato sulla Cina" a un paesaggio "più frammentato", ma di certo "la produzione rimarrà localizzata in Asia".
Emerge un futuro connotato da transizioni lente seppur inevitabili. "La globalizzazione cambia faccia, ma non torna indietro," afferma Cietta. Il cambiamento delle tariffe e delle politiche commerciali inciderà dunque sulle direttrici geografiche e sugli assetti produttivi, generando frammentazioni e nuovi equilibri regionali, senza tuttavia minare le fondamenta della globalizzazione stessa.
La sintesi proposta da Enrico Cietta evidenzia come il settore calzaturiero sia destinato a una trasformazione continua, fatta di riassestamenti strategici, piuttosto che di bruschi cambiamenti.
Le fiere internazionali
È proprio in un contesto come l'attuale, in cui la complessità e le evoluzioni di mercato vanno a braccetto con alcuni consolidati capisaldi, che le fiere dal carattere spiccatamente internazionale e dalla vasta e variegata selezione di aziende, quali sono Expo Riva Schuh e Gardabags, possono fare la differenza. Sono le occasioni da non mancare per meglio comprendere come mutano le rotte del sourcing e per trovare i partner che meglio interpretano le proprie esigenze di business.